balloon

Mi sento un cartone animato. E un palloncino. E il fumetto a palloncino del cartone animato. Anche se i cartoni animati i fumetti non ce li hanno. 

Persa. Osservo la pioggia da dietro al vetro, mi immagino di annegare e mi scappa un po’ da ridere perché io cerco l’acqua a costo di autotirarmi giù dal letto ad orari inverecondi, poi quando l’acqua arriva da sopra e non da sotto mi manca il respiro. Devo essere stata assemblata al contrario, anche per questa faccenda del non amare le esclusive e però di avere le cose più esclusive del mondo da vantare. La casa strana, i capelli in fuorigioco e la malattia normale però rara. Le mani tatuate nel tailleur da manager e l’aria da signorina snob nei pantaloni freak. Cose che cerco e cose che mi capitano. E che di solito mi rendono cactus. 

Stamattina mi sono svegliata malinconica felice. Mi sento cercata corteggiata amata. Mi sento fortunata. Tante cose in -ata. Anche scanzonata. Pure se ci son cose di cui non dovrei ridere, ma a me fan ridere lo stesso. Giovedì c’è la visita e le stelline sugli esami del sangue sono poche, il reflettometro dice bene, mi diranno brava. Sorrido e però mi tremolano le gambe di nervoso. L’ospedale mi rende nervosa, punto. Anche quando vado a trovare i bambini appena nati, figurarsi. Ecco, l’ho detto. 

Fotunata. Mi salverò. Mi sono già salvata. Sono passati sei mesi esatti dalla scarcerazione dall’ospedale-macello in cui mi avevano messa, e avevo deciso di festeggiare andando a correre. Pioveva a dirotto, per cui ho nuotato. Un po’ tipo ripiegare sui pasticcini quando non trovi la torta, ma va bene così. 

E però felice malinconica, perché oggi mi sento più palloncino e cartone animato che cactus. Perché è successa una cosa che non so se c’entra con questa malattia specifica, ma credo di no. Credo abbia più a che fare con la paura che ho avuto di morire. 

Succede che vedo un cactus, e non mi comporto più da cactus. Succede che faccio il palloncino, e mi spavento di me stessa. Perché più le spine sono evidentemente pericolose, più io mi sento disposta a scoppiarglici contro. Verrebbe da dire “come se non avessi nulla da perdere”, ma non è così. E’ come se non fossi più disposta a perdere nemmeno un respiro. Lasciar passare le cose che mi hanno toccata non mi va più, non ci riesco, monta l’ansia, cade acqua dal cielo e mi toglie il respiro e il sonno. 

I cactus questa cosa la capiscono di rado, e lo so bene, perché sono stata cactus anch’io (ancora lo sono un po’, in verità), ma io in questi giorni ho un cactus che mi toglie il respiro, e una volta sarei volata via, come fanno i palloncini saggi. Non sono saggia, lo so. 

E però mi viene anche da ridere, perché strana per strana faccio il cartone animato eccessivo, dico al cactus che mi sputtano come non mai e che non sono abituata così, e lui naturalmente da bravo cactus conserva la sua acqua nelle spine (piangere è uno spreco innaturale, per un cactus) e non fa un plisset. Mi vergogno un po’ di me e della mia ansia da palloncino che ha paura ma si vorrebbe lanciare proprio là (e se conosco questo palloncino, lo farà). E succede che dal niente spunta un altro palloncino, di quelli che se te li passi addosso sono una coccola continua. E ti mette allegria la tua presunta stranezza di persona che non crede nell’esclusività dell’amore, e che per una volta può accettare una carezza senza fare o farsi del male. 

Nota a margine: E’ una storia criptica, questa, lo so. Ma chi accetta di essere cactus e anche palloncino, secondo me qualcosa capirà. 

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