Archivio mensile:luglio 2013

balloon

Mi sento un cartone animato. E un palloncino. E il fumetto a palloncino del cartone animato. Anche se i cartoni animati i fumetti non ce li hanno. 

Persa. Osservo la pioggia da dietro al vetro, mi immagino di annegare e mi scappa un po’ da ridere perché io cerco l’acqua a costo di autotirarmi giù dal letto ad orari inverecondi, poi quando l’acqua arriva da sopra e non da sotto mi manca il respiro. Devo essere stata assemblata al contrario, anche per questa faccenda del non amare le esclusive e però di avere le cose più esclusive del mondo da vantare. La casa strana, i capelli in fuorigioco e la malattia normale però rara. Le mani tatuate nel tailleur da manager e l’aria da signorina snob nei pantaloni freak. Cose che cerco e cose che mi capitano. E che di solito mi rendono cactus. 

Stamattina mi sono svegliata malinconica felice. Mi sento cercata corteggiata amata. Mi sento fortunata. Tante cose in -ata. Anche scanzonata. Pure se ci son cose di cui non dovrei ridere, ma a me fan ridere lo stesso. Giovedì c’è la visita e le stelline sugli esami del sangue sono poche, il reflettometro dice bene, mi diranno brava. Sorrido e però mi tremolano le gambe di nervoso. L’ospedale mi rende nervosa, punto. Anche quando vado a trovare i bambini appena nati, figurarsi. Ecco, l’ho detto. 

Fotunata. Mi salverò. Mi sono già salvata. Sono passati sei mesi esatti dalla scarcerazione dall’ospedale-macello in cui mi avevano messa, e avevo deciso di festeggiare andando a correre. Pioveva a dirotto, per cui ho nuotato. Un po’ tipo ripiegare sui pasticcini quando non trovi la torta, ma va bene così. 

E però felice malinconica, perché oggi mi sento più palloncino e cartone animato che cactus. Perché è successa una cosa che non so se c’entra con questa malattia specifica, ma credo di no. Credo abbia più a che fare con la paura che ho avuto di morire. 

Succede che vedo un cactus, e non mi comporto più da cactus. Succede che faccio il palloncino, e mi spavento di me stessa. Perché più le spine sono evidentemente pericolose, più io mi sento disposta a scoppiarglici contro. Verrebbe da dire “come se non avessi nulla da perdere”, ma non è così. E’ come se non fossi più disposta a perdere nemmeno un respiro. Lasciar passare le cose che mi hanno toccata non mi va più, non ci riesco, monta l’ansia, cade acqua dal cielo e mi toglie il respiro e il sonno. 

I cactus questa cosa la capiscono di rado, e lo so bene, perché sono stata cactus anch’io (ancora lo sono un po’, in verità), ma io in questi giorni ho un cactus che mi toglie il respiro, e una volta sarei volata via, come fanno i palloncini saggi. Non sono saggia, lo so. 

E però mi viene anche da ridere, perché strana per strana faccio il cartone animato eccessivo, dico al cactus che mi sputtano come non mai e che non sono abituata così, e lui naturalmente da bravo cactus conserva la sua acqua nelle spine (piangere è uno spreco innaturale, per un cactus) e non fa un plisset. Mi vergogno un po’ di me e della mia ansia da palloncino che ha paura ma si vorrebbe lanciare proprio là (e se conosco questo palloncino, lo farà). E succede che dal niente spunta un altro palloncino, di quelli che se te li passi addosso sono una coccola continua. E ti mette allegria la tua presunta stranezza di persona che non crede nell’esclusività dell’amore, e che per una volta può accettare una carezza senza fare o farsi del male. 

Nota a margine: E’ una storia criptica, questa, lo so. Ma chi accetta di essere cactus e anche palloncino, secondo me qualcosa capirà. 

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Dall’altro lato.

A quelli che mi conoscono scapperà quasi subito da ridere, già lo so. Perché si pensa che io dall’altro lato lo sia sempre, quasi per partito preso.

All’esordio della sindrome, Max un giorno se ne esce con un “Vegana, Anarchica e mo’ pure Diabetica. Se scopro che tieni all’Inter smetto di parlarti, perché diventi davvero impossibile”. Non tengo all’Inter. Max mi parla ancora. Meno male.

Faccio esercizio dell’essere dall’altro lato. Da sempre, a quanto pare, ma oggi che mi faccio i lividi con le siringhe, si nota di più. Perché quando c’è dell’intenzione, in verità, ci si può sempre rifugiare nelle proprie nicchie ecologiche.

La comunità degli anarchici.

La comunità dei vegani.

La comunità di quelli che non amano le relazioni esclusive.

La comunità non organizzata degli spaccapalle.

Poi ti capita una cosa tanto normale come una malattia, e sei costretta ad essere diversa ma uguale. Puoi decidere se dissimulare oppure metterti al centro della piazza urlando che hai una malattia.

Puoi decidere di renderla una cosa di cui occuparti da sola oppure di rendere la faccenda diabete un’esperienza sociale, di cui quelli che hai attorno si occupano un po’ tutti.

Viro sulla seconda, per istinto e probabilmente anche per egocentrismo (sicuramente, per egocentrismo!) e finisco automaticamente in un casino senza capo ne coda. Perché poi devi spiegare e distinguere, cortesemente allontanare quelli che ritieni falsi profeti e imparare a chiedere a quelli che invece senti vicini. Credo che ogni malato, di qualsiasi malattia si tratti, potrebbe redigere un elenco interessante di “Guarire in tre settimane” e “Il segreto per vivere con… “, “La malattia mi ha cambiata in meglio”, “Come ho sconfitto il …”. Malati di malattie, malati di diete, malati di sport: un consesso di persone al cospetto della propria debolezza, che cercano il guru che gli possa risolvere in quattro e quattr’otto ogni cosa. Possibilmente senza fatica né responsabilità personale. O anche persone che non si crogiolano nell’illusione che esista una formula magica, ma al cospetto dei venditori di speranze dozzinali ci si trovano ugualmente. Il diavolo abita i dettagli.

Posso decidere, questo sì, se la mia malattia è pubblica o privata. E posso anche decidere se guardare le cose con la lente di convenzioni e convinzioni solide e per questo forse comode. Ma spesso tristi.

Oppure posso guardare dall’altro lato. O ricordarmi di farlo di tanto in tanto.

Passeggiavo per New York, poco più di un anno fa, e mi sono imbattuta nel “solito”, benedetto, amato Bansky. Una irriverente Monna Lisa smutandata, che sollevava la gonna mostrando il sedere. Ho comprato il cartoncino a prezzo di saldo, e l’ho appeso in camera non appena tornata a Milano. Piccolo omaggio mal riprodotto all’irriverenza.

Ci ripenso e mi dico che bisogna sempre provare a fare il giro, a guardare le cose anche dal retro. Di una bottega sai veramente l’essenza solo se visiti anche gli spazi di servizio. Non che la facciata non importi, si badi bene.

E allora la naturopatia, consultarsi con gli amici, provare a indagare non solo il calcolo dei carboidrati ma anche quelle rabbie improvvise che perturbano il sistema.

Rido. Mi piace, perturbare il sistema. Gli zuccheri sull’ottovolante sono forse il mio contrappasso terreno. Ma non hanno mica fatto la scelta migliore, prendendomi in giro così. Perché ci sguazzo, tra picchi e discese. Almeno metaforicamente, suvvia.

E penso che questo rimescolamento mi inviti a perturbare ancora, di più e meglio. Non solo faccende di insulina.

Taccio al posto di parlare dove si aspettano che io parli sempre.

Allontano quelli che di solito si tenderebbe ad avvicinare “in queste – quali queste? – circostanze”. Perché sarebbe comodo, ma doloroso. Perché il mio modo di guardare alla vita è la vita che avrò, e devo guardarla in faccia, ‘sta vita, non allo specchio di occhi che mi somigliano.

Corteggio, invece di lasciarmi corteggiare.

Però, sempre, mi mangio le unghie perché non so aspettare.

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Ruvido.

Ho una carezza ruvida nelle dita. Specialmente il dito indice della mano sinistra ne è affetto. 

La gravità della questione consiste nel suo essere il dito principe che conduce le altre dita ad esplorare. Sono mancina, sì. E spesso sfioro le cose al posto di afferrarle a piene mani. 

Per pudore? Non credo. Non sono pudica. 

Per timidezza? No, non sono timida. 

Per umiltà? Giammai.

E allora perché? 

Paura che il mio tocco non sia speciale. Paura che al mio prendere non corrisponda un lasciarsi prendere dall’altro. Paura, soprattutto, che mi venga suggerito che quando si prende si deve anche dare. Quando si tocca, ci si deve lasciare toccare.

Il mio indice sinistro sembra un puntaspilli. Uso un aghetto piccolo ma feroce per estrarre quattro o cinque volte al giorno una gocciolina che mi racconti se il mio sangue è a zollette oppure no. Non è necessario accanirsi sull’indice, anzi: alternassi le dita, il buchino sparirebbe in qualche secondo, e non ci sarebbe nessuna ruvidità nelle carezze. 

Eppure mi dimentico. O forse lo faccio – la maggior parte delle volte senza averne consapevolezza – come capitava quando, bambina, mi accanivo sulle cicatrici per far durare più a lungo il segno di una sofferenza. Una sofferenza piccola e controllabile. Un dolore comprensibile e finito (mica come quelli veri, che ti capitano tra capo e collo e non sai né che intensità avranno né quanto dureranno). Una specie di ricordo, di traccia. Di segno che siamo ruvidi, un po’ tutti, e io un po’ più degli altri. Con le mani che si sfidano un’altra volta ad usare tutte le dita. E anche i palmi, i polsi, e su fino ai gomiti e alle spalle e ai capelli, e via così, come il massaggio – nuova passione e nuova sfida – suggerisce. 

Sempre di dolcezze, si tratta. La metafora di questa malattia è stucchevole. 

L’attenzione all’equilibrio, che passa attraverso quel piccolo segno ruvido che vorrebbe accarezzare senza far male ma non sempre può o vuole. Il senso di rispetto per una piccola goccia di sangue che dice tanto di te. E l’attenzione degli altri, a quella gocciolina. La curiosità, anche. Che ti rende a volte ruvida, quando è ammantata di un senso di pena o di preoccupazione eccessiva. E a volte dolce, quando le persone sanno sorridere con te ed essere solidali. Che è un modo per renderti solida. Solidamente meno ruvida.

Tom Thumb Daddy

Trenta secondi, sono passati. E ho ancora il respiro corto. 

Trenta secondi non sono mica pochi, quando ti scordi di respirare. Anzi, quando decidi intenzionalmente di non farlo, io credo, perché respirare è un atto automatico, dunque è smettere di farlo, ad essere un atto voluto. Vabbeh, seghe mentali giusto per far passare gli altri quindici secondi necessari a sbattere di nuovo le palpebre e sbloccare il groppo in gola.

Per quanto tempo capiterà ancora, papàpollicino, di trovar le tue briciole seminate nei cassetti? Forse per molti anni ancora. Lo spero. Block notes ovunque, la tua scrittura quasi da donna, informazioni parcellizzate, promemoria spesso del tutto incomprensibili. E ogni volta la stessa domanda: lo butto? Me ne separo? E’ uno stupido appunto a matita, una traccia che non serve a nulla. E’ che non ho molto altro, di scritto da te. Ma forse mi avresti risposto “Hai la mia matita, è meglio”.

Ho presto il posto di mio padre. Inizialmente la sua scrivania, le sue cose, la sua agenda aperta sulla pagina del giorno in cui ci ha fatto il pessimo scherzo di non risvegliarsi per tornare in ufficio l’indomani. Così, d’un tratto. Una sera che avevo in mente di telefonargli per raccontare che uno dei suoi ristoranti preferiti aveva chiuso dalla sera alla mattina. Non l’avevo fatto perché ritenevo potesse essere già a dormire. Solo che poi non si è svegliato, nemmeno lui ha riaperto. Così, dalla sera alla mattina.

Due anni fa. 

Non c’entra nulla, con la mia salute. Salvo che mia mamma insinua (deve averlo letto) che certe malattie dormienti si scatenano anche per un dispiacere. Non lo so, ma è una di quelle cose a cui non mi va di pensare. 

“Non capisci i miei appunti, ma hai la mia matita”. Non so perché ti immagino dire una frase del genere. Non sarebbe stato il tuo stile. Ma forse è perché non mi hai mai spiegato granché. Mi spingevi a fare, a provare, questo sì. E allora sto seduta nel tuo ufficio e provo a immaginare – quando faccio le cose difficili, le telefonate spiacevoli – che cosa avresti fatto tu. Che non era necessariamente giusto, in verità, ma è un pensiero che mi tiene compagnia. E raccolgo le briciole, papàpollicino, disseminate nei cassetti e nelle voci di chi mi telefona e va a caccia di una traccia – lui pure – di somiglianze tra noi. E magari mi regala un ricordo, di solito buffo. 

Che tu eri uno che “Un momento prima di morire, sei viva”. Questo sì, che me l’hai detto. Quando mi hanno mollata e mi pareva tutto finito. Eri incazzato nero, prima con quello che mi ha fatto del male, poi con me che non reagivo. Perché ero viva ma era come se non. Allora sei stato tenero, mi hai detto quelle cose che i papàpollicino dicono ai figli ma che tu avevi smesso di dirmi quand’ero molto piccola. 

Abbiamo sempre avuto un problema con la dolcezza, io e te, quando ero ragazzina. Lo sai quando si è risolto, papàpollicino? Non lo sa nessuno, tranne te e me. E’ stato quella volta che mi hai beccata fare una cosa che disapprovavi in pieno. Una roba grossa, che pensavo mi avresti presa a schiaffi (chissà perché, poi, che tu uno schiaffo non me lo hai mai dato nemmeno per sbaglio). Prima mi hai guardata un po’ in tralice, poi hai detto “Non capisco, ma se va bene a te…”. Io ho sentito dei campanellini nella testa, lo giuro. E poi, il tocco magico: “Questa però alla mamma non la diciamo”. Complici. Di dolcezza ruvida come i cristalli di zucchero. 

Adesso ho ‘sta malattia, che ha a che fare con lo zucchero. Secondo me tu non c’entri, papà, ma penso che i miei problemi con la dolcezza vanno avanti e si precisano in forme corporee via via più chiare. Che si curano anche con le tue briciole disseminate nei cassetti. 

E soprattutto, certo, sì, con la tua matita a mine grosse. Perché quando – forse capiterà – non troverò più nemmeno una briciola, avrò comunque di che tracciare altra rotta. 

La situazione è grave. Ma per fortuna non è seria

Dice che non è vero che una malattia così scema ti scompagina il cervello.

Dice – ammette – che non è vero nel senso che non è cosa studiata.

Dice – confessa – che più che altro non se ne è mai interessata.

Dice che più di tutto conta chiedere ad altri pazienti. Affetti da sindrome, li chiamerei, a meno che “paziente” non significhi “persona che ha un sacco di pazienza” (col dottore, intendo).

Dice che le ho raccontato che ho diversi cari amici con la stessa “roba”. Dice proprio “roba” e io penso all’eroina, di cui so solo dai racconti d’altri, ma qua le droghe cominciano a tornarmi in mente troppo spesso. Sarà forse perché m’han suggerito di limitarne molto il consumo (mi han suggerito di non usarle, ma siccome ho enunciato che io i consigli dei medici li prendo con le pinze sterili, già riferendo, medio).

Dice di domandare ai “cari amici”, ma come si fa?

Voglio dire, io domando ma… Abbiamo un problema, Houston. Quelli che conosco e che sono cari, sono tutti uomini.

Ho confidenza, non è mica quello il problema. Anzi, confesserò qua, spesso gli uomini – quanto meno i miei amici – son più asciutti, più diretti. Mi trovo meglio. Però.

Dice che non lo sa, lei, se l’insulina scompagini le carte del desiderio. Se ti faccia piangere di più e desiderare di meno. Se ti faccia andare un po’ a farfalle ma poi ti sconvolga se le farfalle finiscono dritte nello stomaco troppo alla svelta.

Dice. Ma secondo me non ha capito che mi riferisco proprio proprio ma proprio al desiderio fisico di un altro essere umano. Qualcuno di voi ne sa qualcosa?

Che qua io non lo scrivo, che cosa mi han risposto gli amici maschi. Se ne han voglia, dicano loro. Amiche femmine cui chiedere, non ne ho. Anatomicamente, è un bel guaio.

Dice. Dice e non dice, la dottora, perché lei deve dirmi solo di quante pere devo farmi. Scusate, mi son concessa un’espressione da tossicodipendente. Sublimo. Dice “Probabilmente dipende…”.

Dice forse il vero. Perché poi tantissime domande mediche hanno una sola risposta. Che è “Dipende”. Come dice la canzone in spagnolo. Da che dipende? Da che punto guardi il mondo…

“Il tuo modo di guardare alla vita, è la vita che avrai”. Narra una mia amica che l’ha trovata scritta sulla porta di un cesso pubblico. Beh, adesso è scritta anche sul mobiletto della mia cucina. E sulla stampante che ho in ufficio, bella in grande.

Forse è così, anche per questa faccenda. Ti ammali, ti senti precaria più di quanto già non ti ci sentissi, e guardi alla vita in un modo che è fatto più di facce che di sessi. Più di abbracci che di numero di esseri umani che ti trovano attraente. Più di rabbia quando le persone spariscono prese dai loro impegni che di gesti eclatanti che ti fan sentire desiderata.

Sta tutto nell’aver rischiato di morire? Psicologi d’accatto mi dicono di sì. E in effetti i primi giorni davo anche retta. Ho chiamato almeno due persone dicendo – duramente sincera forse per la prima volta – “Altri cinque minuti, e non ci saremmo risalutati. Dunque ora la pianti di dirmi cazzate e provi a non sparire di nuovo”. Funzionato al 50%, e non è male.

E ora ci risiamo, sapete? E senza trascurare l’importante domanda di cui sopra, sul desiderio sessuale più o meno inibito dalle pere o dalla patologia o da saildiavioloche, vi rassicuro – ché so che finora a leggermi son principalmente amici che si preoccupano per me – la situazione è grave. Ma per fortuna non è affatto seria.

Poi, sempre per fortuna, c’è pure dell’altro.

 

NB: Il titolo credo vada attribuito a Ennio Flaiano. Ma protrei sbagliarmi. Andrebbe googlato, ma qua google si è impallato. Fate voi 🙂

 

AGONI E AGONIE. Cominciano storie senza zuccheri aggiunti.

Take it easy, mi sembrano dire. Perché non sembro malata, per niente. Solo qualche mese, son durate la faccia scavata, il tremolio che a me ricorda tanto la crisi d’astinenza ma, bada bene, in ospedale non te lo chiamerebbero mai così. Perché l’insulina è sacra, l’insulina è il bene, l’insulina è prodotta naturalmente dal nostro corpo per cui non c’è motivo di considerarla dannosa.

I diabetici possono condurre una vita normale. Ecco, così si è capito. Sono diabetica e l’ho scoperto da poco. Peraltro rischiando di rimanerci secca, il che ha il suo peso in questa storia.

Il suo peso, perché a salvarmi la pelle è stato un amico (e anche dei medici, certo, ma che discorsi sono), guidato da un’intuizione: “Sentivo un tono che non ti appartiene. Ho preferito mandarti un’ambulanza al posto di venire a vedere come stavi, a costo di passar per scemo”. Grazie Andrea. Sono viva per te, e non è nemmeno la prima volta, così a occhio. Un’intuizione. Un sentire in armonia con l’altro, che è la cifra di questa storia, fin dal suo inizio.

Take it easy. Ti è andata di culo e adesso amministra il vantaggio. E poi sei bella, ti stanno bene quei capelli, sembri in forma e bla bla bla.

Tutto vero. Io la prendo alla leggera. Nel senso che cerco leggerezza, non che me ne fotto.

E più vado avanti più penso che prenderla alla leggera, per come la intendono quelli che me lo dicono, sia un’altra cosa.

Prenderla alla leggera, per loro,  è fidarsi solo e soltanto delle iniezioni e del dosaggio dei carboidrati, sparandosi sotto pelle qualche unità d’insulina in più quando voglio far bisboccia con gli amici e scordando che devo pensare al futuro. Perché diciamocelo, la bastardaggine di certe sindromi non è la gestione del quotidiano. Bastardo il fatto che questa cosa durerà per sempre, e siccome il mio piano è di sopravvivere ben oltre i cento anni d’età, per arrivare al traguardo senza danni collaterali troppo pesanti (posso eventualmente ammettere di invecchiare un po’, ma con gradualità e moderazione), devo cominciare adesso a prendermi cura. E bene.

Altro che take it easy. Take it easy è un gioco di bilanciamenti di ormoni, che ormai potrebbe essere preciso al millilitro di sostanza. Take it easy è l’atteggiamento medio dei medici in cui mi sono imbattuta (eccezion fatta per quelli cui ora ho davvero deciso di affidarmi) che sì, hanno nel cassetto qualche buon consiglio su cosa mangiare, sullo sport, sul riposo ma… Esami del sangue, iniezioni e dieta standard (mangia sempre le stesse cose, così non ti sbatti a far calcoli) sembrano essere la sola risposta.

Take it easy. È quel che voglio. Giocare a togliere peso. Ma.

Ma. Ci sono giorni in cui mi sento una merda perché l’insulina fa gonfiare le gambe.

Ma. Ingrasso senza mangiare e se mi affatico troppo inizio a tremare.

Ma. Mi viene paura se il numerino sul reflettometro è sotto il magico range 60-120 che vogliono da me. E magari sto correndo e sono lontana da casa. Che sì, ce l’ho la bustina di miele in tasca che risolverà tutto in pochi minuti, che discorsi, non è una tragedia. Però cazzo.

Ma. Ancor peggio quando non sto affatto male ma il magico attrezzo segna 200 e più e fa pure la faccina con gli angoli della bocca all’ingiù. Come a dirti “Attenta cara! Perché ti sembra di star bene, ma stai mettendo una bella ipoteca sul tuo futuro da ultracentenaria”.

Che poi, a pensarci, è un po’ ridicolo anche questo: c’è chi si ammazza di sigarette, e probabilmente rischia più di me, ma penso che non stia lì ad arrovellarsi ogni volta che se ne accende una. Io invece ho l’aggeggino con gli angoli della bocca all’ingiù. Il reflettometro forse si chiama così perché fa riflettere.

Take it easy. Easy un paio di palle. Mi alzo alle 6, medito, corro oppure vado in piscina. Vado al lavoro. Mi porto il pranzo, perché provaci tu a trovare in giro cibo vegano biologico con anche l’accortezza di contare per benino proteine, carboidrati, grassi. Un diabetico non può mica mangiare sempre una qualsiasi pastasciutta. Cibo integrale, ci vuole, e fibre. E niente grassi saturi (che tanto io già non mangiavo, essendo vegana… grandissima botta di culo, dai, ammettiamolo!).

Lavoro, dicevamo. E senza perdere un minuto, che già ogni tanto tocca stare a casa per gli esami clinici e quelle cose lì. E poi bisogna mostrare che malati non si è. O almeno che quella malattia lì è solo una specie di peccato veniale.

Take it easy. Almeno due volte alla settimana, si va in palestra, che la crisi che ti ha quasi ammazzata ha portato via poco meno della metà dei muscoli, e le prime settimane anche un piano di scale pareva un’impresa non da niente. E anche trovare dei vestiti che mascherassero il disastro, in verità.

E poi quella smania di vita sociale, di incontri nuovi, di affermazione della tua identità. Perché c’è una cosa che non ho detto forse in modo chiaro: anche un malattia in effetti controllabilissima come il diabete (sì, lo so, non è nemmeno una malattia, è una sindrome), quando la scopri ti mette a confronto con il “chi sei” e con la traccia che vuoi lasciare. È un’avvisaglia della nostra precarietà, che non ti dimentichi mai. Lo sappiamo tutti, che non dureremo per sempre, ma c’è chi è più attrezzato per dimenticarsene un po’ ogni giorno. Invece l’amica immaginaria che ti ricorda che quel numerino deve stare a posto, ti mette lì a dire “Bene, Lu, come siamo messi con gli amori, gli amici, i sogni? Abbiamo chiaro dove stiamo andando? No, perché sai, tanto ci andremo insieme, dunque tanto vale mettersi d’accordo su come fare il viaggio al meglio”.

Take it easy.

Ma nessuno ha detto che sarebbe stato facile. All’inizio del viaggio credo ci sia stato detto da qualcosa di ancestrale che ne sarebbe solamente valsa la pena.

E che ‘sta cosa, che non è la vita da malata, né la malattia in sé, né la sfiga o come cavolo la si voglia chiamare, ma è semplicemente la Vita, maiuscola, può essere agonia ma anche lotta (ok, nel titolo ho usato “agone”, che non sentivo dall’86, ma il gioco di parole era irresistibile…). Lotta gioiosa, in verità. Perché anche se voi mi dite di prenderla con leggerezza, e io ogni volta penso “leggerezza una sega”, quel che si vede è vero. Sto bene, studio, prendo le cose con ironia e i consigli dei medici con pinze sterili monouso. Nelle prossime puntate, se vi va, prendiamo la pesante leggerezza un punto alla volta. Parleremo di cibo, di medicinali, di meditazione, di socialità, di sport…

È dovuto precisare (ma ci tornerò su ogni volta) che io non sono né un medico né un’esperta di alcunché, dunque voglio solo (solo?) condividere un’esperienza strettamente personale (ma per me il personale è sociale) e magari trovare qualche compagno di strada che potrebbe avere gli stessi problemi, ma anche altri. O che sta da dio, ma si diverte a ribattere alle minchiate che scrivo.

Buon viaggio a me e a voi.