Archivio mensile:gennaio 2014

Non ce la faccio più, davvero.

Il sospirato anniversario sta per arrivare. E io non ce la faccio più, davvero. Perché credevo che un anno sarebbe bastato, a restituirmi serenità. Ma io sono un’impaziente per natura, e non ce la faccio. E vorrei quasi annullare la festa di domani, e non lo faccio perché so che entro domattina avrò cambiato idea perché la nudità dei sentimenti non mi piace mentre attingere alle risorse di energia che credi di non avere e invece hai fa tanto bene.

Però non ce la faccio più, davvero. L’ho scritto a una persona che amo molto, ma è forse già a letto, oppure non sa che cosa farci o non vuole. Non lo so, e non oso svegliarlo per chiederglielo. Vorrei solo che scrivere mi facesse venire sonno, invece in questo momento sento solo degli spilli nella mano destra e le gengive sanguinare. Vorrei mordermi l’interno della guancia, come facevo da bambina quando ero arrabbiata, per poi accorgermene domani mattina, che mi sarò fatta male.

Mi manca il coraggio. Non di mordermi la guancia, no, che tutto sommato il sapore del sangue mi piace. Mi manca il coraggio di guardare negli occhi, di ammettere debolezza. Di dire che cos’è esattamente quel sentimento. Perché lo sto dicendo, ma ci sto anche girando attorno, per paura di una porta sbattuta in faccia.

Non voglio più. Non ho più voglia. Non ce la faccio. Davvero.

Non ce la faccio più ad aspettare e coprire il vuoto con i miei sorrisi. Non ce la faccio a fare sesso a caso, non perché non mi piaccia ma perché mi manca molto di più il non dormire da sola. Non vorrei più dover scorrere l’agenda e chiedere un favore, quando devo andare all’ospedale e so che al ritorno non potrò guidare. Non vorrei. Non voglio. E infatti non lo faccio. Ci sono i taxi e la metropolitana. Me la cavo. Tanto quando esci dall’oculista nessuno si accorge che stai piangendo. C’è chi aspetta la pioggia. E chi aspetta il fundus oculi. Mi guarderanno in fondo agli occhi, tra poco. Chissà se con quell’aggeggio riusciranno a vedere veramente quel che c’è dentro. Che gli vorrei dire “Caro dottore, non si preoccupi, che ci vedo fin troppo bene. Fino in fondo. Che gli occhi sono collegati al cuore a brandelli che ho, non lo sa?”. Risuona il silenzio, e io in una notte così riesco solo a pensare che non voglio morire da sola. Che ce li ho, gli amici, le amiche, le sorelle, i fratelli, ma in quest’anno che sta girando la boa ne ho anche persi, e non avrei mai voluto, e non ne conosco il motivo.

Ai piedi del mio letto, il mio fratello di vita, un anno fa, ci era stato per ore. Aveva paura che morissi. Poi ha scelto di andare via, senza dirmene la ragione. Ho scoperto che mi aveva tolta dall’elenco dei parenti. E nemmeno una parola di spiegazione. Lo amo ancora, lo amerò sempre, e da brava sorella rispetterò quel che ha scelto. Ma mi manca come l’aria.

Che non è una metafora. Stanotte non respiro.

Volevo scrivere di benessere e malattia. Forse non è quel che sembra, ma lo sto facendo anche ora. Scrivo e ho smesso di piangere. Scommetto che se misurassi quanto zucchero ho in circolo scoprirei che almeno un po’ l’ho smaltito, solo picchiettando con le dita sui tasti.

E non vorrei commenti né “mi piace” né telefonate, per favore. Né “Come ti senti amica fragile, se vuoi potrò occuparmi un’ora al mese di te”. Non è l’affetto degli amici a mancarmi. Grazie in anticipo e così sia. E’ che sogno sogni shakespeariani, che sono figli di un cervello alla deriva, fatto di null’altro che di vana fantasia. Rinunciare a cose concrete è tanto semplice. Accettare l’arrivo di una malattia, di un problema, di un limite. Non mi ha mai fatto paura. Ma accettare un’assenza che cos’è? Come si fa? Non sono capace. Ho pensato di esserlo. Ma non sono capace. Non ce la faccio più, davvero.

Scusate. Presto tornerò stupida. Ora volevo solo trovare un modo per addormentarmi fino a domattina. Cinque ore alla meta. Buona notte.