Archivio dell'autore: Nostalgia di Futuro

NIMN (notinmyname)

Mi attribuiscono cose.

Ah, già, giusto. Non scrivevo da un anno. Perché? Non so. Fine delle spiegazioni.

Mi attribuiscono cose. Stavo per dire “pensieri”, ma no, son proprio “cose”: pensieri da cui discenderebbero cose da fare. Che non faccio. Non faccio mai “cose” che mi attribuiscono. Salvo quando ho un capo al lavoro. Che non ho mai avuto (gigantesca botta di culo. O scelta consapevole ed economicamente autolesiva. Boh).

Mi attribuiscono un’appartenenza politica da cui discende un’idea sull’amore da cui discende la necessità di definire e definirmi, da cui discende l’opinione che a me faccia piacere scrivere, andare, militare, pubblicare. Solo che io non scendo. Di solito salgo. Non ho mai sopportato le deduzioni.

Mi attribuiscono anche desideri, conseguenze logiche, capacità di un qualche tipo in ambiti che nemmeno si immaginano. Da cui discendono richieste più o meno esplicite, da cui discendono aspettative disattese, da cui discendono musi lunghi. La questione è sempre e comunque la precedente. Io salgo. A volte saltellando, altre – non rare – arrancando.

Negli ultimi anni ho avuto spesso il fiato corto. E il respiro anche. Mannaggia allo zucchero. Ma soprattutto al mio ostinato guardarmi gli alluci. Non andavo in montagna, io, perché pensavo che in montagna si dovessero sempre guardare i propri piedi. Ho alzato la testa e mi si è ampliato l’orizzonte, il respiro, il cuore. Soprattutto il cuore.

Ho scoperto che posso salire. E pure che sono una persona felice. Da dentro a fuori, e non viceversa. Da quando l’ho scoperto, poi, le persone felici (o in direzione dell’esserlo) mi sono precipitate addosso come se fossimo calamite. E altre sono finite lontane, incapaci di tornare a due passi. Le mie parti buie che vogliono stare alla larga, mi viene da pensare, e dunque quel che risuona in direzione “buio, freddo e lamentoso”, non riesce più a far presa, mi scivola addosso come un pesce sfuggito all’amo. Viva i pesci.

Dunque salgo. Non tiratemi giù. Non mettetemi fretta perché volete prendervi la mia forza. E’ lì, ma non per esser presa. Solo per rispecchiare quella che hanno tutti.

Voglio fare molte cose, e non è un caso che ci pensi oggi che è un po’ un primo giorno di scuola (beh, sarebbe il secondo, forse, da calendario, ma io arrivo sempre un attimo dopo, persa come sono dietro alle farfalle). C’è chi mi vuole con sé, per la deduzione suddetta. E c’è chi mi ricorda di riposare, che sono malata, che bla bla zzzzz… bzzzz… Fastidioso rumore di fondo. Non sono più il ciclone che ero. Se ne accorgono e reagiscono in due maniere: la prima è suggerire che tra le tante cose da lasciare, sicuramente la loro va preservata perché è tra le più importanti. Oppure vogliono tenermi ferma.

Farò quel che sceglierò, scusatemi tutti moltissimo. E forse chiuderò questo spazio. O lo lascerò lì per un anno ancora. O fino alla prossima volta in cui ritirerò esami clinici che dicono quel che mi aspettavo dicessero, e non quel che si aspettavano gli altri.

Pace, Libertà, Sovversione. Che poi vuol dire buon anno, alla fine.

Conta il respiro

Mi era sembrata una bella idea: “Nella vita non contano i respiri, ma i momenti che ti hanno tolto il respiro”. Non cercherò chi l’ha detta, ché tanto ho cambiato opinione. Ora che ho provato così tante volte la sensazione di non poter respirare, capisco che è mettere in fila i respiri, ciò che conta. Ciascuno prezioso e da vivere a fondo. Anche quando giri come un pesce nella boccia. Che la sorpresa è dietro l’angolo e i sentieri tra le fronde prima o poi spalancano un orizzonte inaspettato. Zuccherosa, stasera. Devo farci attenzione, che qua si rischia l’iperglicemia.

Mi dicono di una tecnica di respirazione – buteyko, si chiama – che consiste nel trattenere l’aria dentro di sé perché i polmoni possano diventare più elastici, costretti nello sforzo di trattenere. E molte altre cose, da leggere sui libri di chi le sa dire.

Trattenere. Non lasciare sempre e comunque andare. Pare essere la hit del momento, per me. Persino la dottoressa mi ha detto che devo imparare a trattenere qualcosa per me, a non essere sempre intenta a mettere in circolo le energie, ma a conservarle. Ha detto “Non si vede, ma tu sei malata”.  Inizialmente, io di questa frase registro solo che ha cominciato a darmi del tu. E che sta parlando di qualcosa che non è scritto nel foglio che riporta i valori dell’emoglobina glicata e cose del genere. Ma poi mi infastidisce, che dica che sono malata. Eppure lo sapevo già. Perché mi disturba? E mi viene in mente di quando da bambina (ho scoperto poi che lo pensano un sacco di bambini, ma io mi sentivo molto colpevole, allora) desideravo essere malata, quando volevo attirare l’attenzione. Adesso invece non mi va. Sarà che nel frattempo ho scoperto che ci sono modi molto meno dolorosi, per stare al centro della scena. Chissà.

Mi disturba che c’è una prospettiva da ribaltare. Un’altra? No, forse è sempre la stessa, solamente che io credevo si trattasse di ribaltare una medaglia, e invece man mano che vado in profondità scopro che tra le mani ho un prisma con tantissime facce, e ognuna ha il suo riflesso, il suo spigolo da smussare, la sua scoperta da celebrare.

Ricevere e trattenere. Per me che ho subito l’educazione del dare e dell’esibire.

Trattenere il respiro al posto di sbuffare.

Allargare i polmoni e alzare lo sguardo. Non più cercare di occupare uno spazio più piccolo e contrarre per scattare.

Mostarsi in piena luce. Contare i respiri che riusciamo a trattenere. Uno. Uno, due. Uno, due, tre. Siamo al tempo del valzer. Uno, due, tre, quattro. E poi soffia. Che ritmo sarà? E intanto imparo a correre più veloce, a percorre una distanza più lunga.

Mi fermo. Ho le gambe spaccate ma il cuore contento. Controllo sul reflettometro quel famoso numerto che dovrebbe stare sotto al cento. Funziona.

Non ce la faccio più, davvero.

Il sospirato anniversario sta per arrivare. E io non ce la faccio più, davvero. Perché credevo che un anno sarebbe bastato, a restituirmi serenità. Ma io sono un’impaziente per natura, e non ce la faccio. E vorrei quasi annullare la festa di domani, e non lo faccio perché so che entro domattina avrò cambiato idea perché la nudità dei sentimenti non mi piace mentre attingere alle risorse di energia che credi di non avere e invece hai fa tanto bene.

Però non ce la faccio più, davvero. L’ho scritto a una persona che amo molto, ma è forse già a letto, oppure non sa che cosa farci o non vuole. Non lo so, e non oso svegliarlo per chiederglielo. Vorrei solo che scrivere mi facesse venire sonno, invece in questo momento sento solo degli spilli nella mano destra e le gengive sanguinare. Vorrei mordermi l’interno della guancia, come facevo da bambina quando ero arrabbiata, per poi accorgermene domani mattina, che mi sarò fatta male.

Mi manca il coraggio. Non di mordermi la guancia, no, che tutto sommato il sapore del sangue mi piace. Mi manca il coraggio di guardare negli occhi, di ammettere debolezza. Di dire che cos’è esattamente quel sentimento. Perché lo sto dicendo, ma ci sto anche girando attorno, per paura di una porta sbattuta in faccia.

Non voglio più. Non ho più voglia. Non ce la faccio. Davvero.

Non ce la faccio più ad aspettare e coprire il vuoto con i miei sorrisi. Non ce la faccio a fare sesso a caso, non perché non mi piaccia ma perché mi manca molto di più il non dormire da sola. Non vorrei più dover scorrere l’agenda e chiedere un favore, quando devo andare all’ospedale e so che al ritorno non potrò guidare. Non vorrei. Non voglio. E infatti non lo faccio. Ci sono i taxi e la metropolitana. Me la cavo. Tanto quando esci dall’oculista nessuno si accorge che stai piangendo. C’è chi aspetta la pioggia. E chi aspetta il fundus oculi. Mi guarderanno in fondo agli occhi, tra poco. Chissà se con quell’aggeggio riusciranno a vedere veramente quel che c’è dentro. Che gli vorrei dire “Caro dottore, non si preoccupi, che ci vedo fin troppo bene. Fino in fondo. Che gli occhi sono collegati al cuore a brandelli che ho, non lo sa?”. Risuona il silenzio, e io in una notte così riesco solo a pensare che non voglio morire da sola. Che ce li ho, gli amici, le amiche, le sorelle, i fratelli, ma in quest’anno che sta girando la boa ne ho anche persi, e non avrei mai voluto, e non ne conosco il motivo.

Ai piedi del mio letto, il mio fratello di vita, un anno fa, ci era stato per ore. Aveva paura che morissi. Poi ha scelto di andare via, senza dirmene la ragione. Ho scoperto che mi aveva tolta dall’elenco dei parenti. E nemmeno una parola di spiegazione. Lo amo ancora, lo amerò sempre, e da brava sorella rispetterò quel che ha scelto. Ma mi manca come l’aria.

Che non è una metafora. Stanotte non respiro.

Volevo scrivere di benessere e malattia. Forse non è quel che sembra, ma lo sto facendo anche ora. Scrivo e ho smesso di piangere. Scommetto che se misurassi quanto zucchero ho in circolo scoprirei che almeno un po’ l’ho smaltito, solo picchiettando con le dita sui tasti.

E non vorrei commenti né “mi piace” né telefonate, per favore. Né “Come ti senti amica fragile, se vuoi potrò occuparmi un’ora al mese di te”. Non è l’affetto degli amici a mancarmi. Grazie in anticipo e così sia. E’ che sogno sogni shakespeariani, che sono figli di un cervello alla deriva, fatto di null’altro che di vana fantasia. Rinunciare a cose concrete è tanto semplice. Accettare l’arrivo di una malattia, di un problema, di un limite. Non mi ha mai fatto paura. Ma accettare un’assenza che cos’è? Come si fa? Non sono capace. Ho pensato di esserlo. Ma non sono capace. Non ce la faccio più, davvero.

Scusate. Presto tornerò stupida. Ora volevo solo trovare un modo per addormentarmi fino a domattina. Cinque ore alla meta. Buona notte.

Una serata normale

Ci sono regole che si imparano in adolescenza e che non si devono trasgredire mai.

Una di queste recita: dopo aver fumato marjuana, tieniti alla larga dal telefono.

Dunque, fedele alla mia legge, scrivo qui, indistintamente, come se non mi rivolgessi ad altri che non siano me stessa (il plurale non è errore sintattico: chiamatemi Legione). Che poi, per la verità, è vero che sto scrivendo a me stessa. Perché oggi mi sono dedicata una serata normale. Misurando e calcolando, perché stare male non è dedicarsi a sé, ma ho voluto versarmi un bicchiere di vino cantando sopra a una musica suonata a volume alto. Ho voluto cucinare senza far troppi pensieri su ciò che devo o non devo. Ho voluto arrotolarmi un po’ d’erba anche se sono qua da sola. Ho voluto mescolare libri sulla fisica quantistica a fumetti e riviste molto stupide. Ecco, della fisica quantistica ho capito pochino, ma in questo stato di alterazione è ancora più bello sapere che siamo fatti di Luce.

Anche Luce maiuscola non è un errore. Che stasera sembra tutto connesso e dunque sfoglio riviste, libri, fumetti e leggo di quanti di luce così come di una donna meravigliosa di nome Luce. Vorrei avere una figlia e chiamarla Luce. Lu… Lu… Lu… Lu, abbiamo detto di stare lontane dal telefono, occhei? Che queste cose si pensano per sé, ma non si dicono per davvero. Luce che ha una figlia e la chiama Luisa. Che scrive articoli su riviste clandestine e si firma Alba, come la mia mamma. Lu, Lu, Lu.

Volevo solo una serata normale, e adesso che l’ho iniziata senza sapere come mi sarebbe riuscita, ho voglia di farla durare a lungo, e mi verso un cognac profumato. Non abbiate paura: è pochissimo, davvero. La cosa bella del non poter bere come gli altri, è che cominci a bere il profumo e le sfumature di ciò che hai nel bicchiere. Non ricordo esattamente come sia il piacere dell’esagerare (non in questo campo, almeno), ma quello dell’andare in sottrazione comincia ad essermi sempre più chiaro, ed è bellissimo. Ed è bellissimo anche aver sognato tutta la sera un mondo perfetto. Sapendo che la perfezione non è del mondo e che quando cammini nei sogni degli altri devi andare molto piano. Un po’ immalinconisce, quando pensi che il tempo non ti aspetta, che la perfezione che immagini non può dipendere solamente da te, che qualcuno si metterà sempre comunque in mezzo a dirti che la tua malattia è una sfortuna immensa, che la vita è ingiusta e tutte quelle cose lì. E sarà dura contrastarle sempre, dire che no, non è così, e avere il coraggio di allontanare chi vuole toglierti l’energia perfetta nelle cose. Ogni cosa è illuminata, dice un bravo scrittore. Ancora Luce, Lu. Sempre Luce. Mette malinconia, che si stempera nel fumo – e non ho fumato abbastanza da dire cose che non sento – ma anche un’allegria che viene dalla frase finale di un bel video che gira in rete in questi giorni: “In the end, happiness is a choice”

Non ci riesco.

Ho visto un film sulla bellezza, ma credo che parlare della bellezza proprio non si possa. E’ stato come vedere qualcosa di emozionante, disturbata da un chiodo costantemente trascinato su una superficie liscia.

Ho comprato scarpe divertenti, anche. E alimentato il divertimento con i commenti degli amici. Aspetto, per completare il quadro, quel che dirà mia madre.

Ho goduto del sole a Milano. Milano con il sole è bellissima, ma non so perché, altrimenti saprei parlare della bellezza e mi piacerebbe molto il film che ho appena visto.

Della mia bellezza non so nulla. Non so perché la veda, chi la vede. E non so – e questo mi fa impazzire – quando e come succeda che le stesse persone smettano di vederla.

Ho sempre creduto che smettiamo di vedere la bellezza dove insorge l’abitudine, e che sia per questo che amiamo l’arte. Per orrore dell’abitudine ho modificato il mio corpo, modifico i vestiti, i toni, gli oggetti. Per orrore dell’abitudine consumo incontri ma anche – e il piacere dura più a lungo – provo a rinnovare le relazioni, a negoziarle, a renderle speciali perché la persona che ho davanti, se ho voluto incontrarla, la considero speciale.

Ho orrore dell’abitudine e mi ritrovo in trappola dentro a un’abitudine. Ieri ho guardato un’amica pranzare e mi sono chiesta come mai non si facesse un’iniezione, prima del primo boccone. Semplice. Non le serve. Lei non ha bisogno di avere queste abitudini, anche se posso supporre che ne abbia altre, altrettanto essenziali, e allora forse poco cambia.

A me non ne avevano installate, di abitudini. I have no habits: l’ho detto decine di volte a chi si è trovato a viaggiare con me. E forse sono stata interpretata come un “Non ti preoccupare, mi adatto”. Non è così. Io non mi adatto mai, io sono scomoda per definizione. Io non lascio perdere, non trascuro, non aspetto che il tempo curi le ferite. Il tempo non cura niente, sono solo cazzate: il tempo manda a fondo il sintomo e lo cronicizza, se non fai qualcosa per reagire.

Mi hanno installato un’abitudine, e per molti mesi mi hanno indotta alla disciplina. Ho fatto tutto quello che mi hanno suggerito, ma non basta. Non mi basta più. Voglio che il corpo e la mente reagiscano, voglio che l’anima si svegli.

Oggi non ci riesco. Inseguo il solito schema di un telefono che squilla a vuoto e aspetto sapendo che accadrà che verrò richiamata quando tutto il rumore di fondo si sarà spento e dall’altro capo dell’etere sarà chiaro che io non sono più tanto arrabbiata da perturbare il sistema.

Oggi non ci riesco, ma ci voglio riuscire, ad emergere da queste coperte con uno schema differente che butti un sassolino nel sistema. Voglio che estrarre la siringa sia ogni volta un atto consapevole, così come camminare, piangere o scopare. Che il corpo resti vivo. Con l’anima e con la mente. Certo sarebbe più facile accendere un metronomo. Perché oggi non ci riesco.

Ma guardo avanti, provo a chiedermi se mi vedo dentro a una bellezza calma, ordinata. E non ci riesco.

Uninstall. Download. Install.

Giorni che sono proprio triste. Dicono che mangiare un pugno d’orzo bollito la sera faccia bene all’umore e faciliti il sonno.

Oggi ho provato. Sono triste e non ho sonno. Ma forse l’effetto sale lento, come per certe erbe buone.

Intanto ascolto una canzone scritta da un amico e mi dico che sono fortunata perché per qualche ragione riesco sempre a circordarmi di artisti, così parole e immagini mi fanno compagnia quando mi sento così sola.

Giorni che sono proprio triste, perché mi pare che si stia chiudendo il cerchio dei sogni infranti. Credevo si fosse già chiuso, accidenti, e invece ce n’è sempre uno di troppo, di sogno che non si avvera.

E allora. Piango, che ci vuole un po’ di pianto per lavare via il dolore, ma intanto mi preparo a disinstallare il sogno. E a caricarne un altro. Anzi, altri. Che così se ne muore uno, non si rimane senza. E poi reinstallo. Getto le basi, progetto arcobaleni, percorro ponti. I ponti più colorati, gli arcobaleni più solidi, le basi più lunghe sono quelli lastricati di sogni spezzati. Fare le piastrelle coi sogni frantumati, io credo, crea quei pavimenti a mosaico che sopravvivono a tutto. Altro che piastrelloni a poco prezzo e poca fatica. Perdonate le metafore edili, che già che ero incasinata, ho cambiato casa e ormai so mille e una sfaccettature del cartongesso e dello smalto antiruggine.

E sapete cosa? Non mi ricordo se abbiamo già parlato di quel che mangio. Sì, vegana da un po’. Questo si sa. Vegana, diabetica, anarchica. Anche poliamorosa. Suppongo che ormai ci sia un giro di scommesse sulla prossima stranezza che andrò a confessare. Credo siano quasi finite. Ma un po’ di suspance non guasta, dai.

Comunque, dicevamo. Quel che mangio. Oggi mentre cucinavo ho pensato che se davvero “siamo quello che mangiamo” io non posso spegnermi: avevo davanti tutto un tavolo di roba che germoglia. Mi piacciono, le cose che germogliano. Mi piace pensare che io – contrariamente a chi mangia gli animali – abbia la possibilità di mangiare cose vive, peraltro senza arrecare dolore.

Ma detto questo. Mi stanno riprogrammando. O meglio: mi sto riprogrammando con l’aiuto di chi del cibo ha fatto scienza di guarigione (wow, ‘sta frase mi è uscita alla De Luca… rimedio subito scrivendo qualche stronzata, non temete!). “Veganic”, si chiama il sistema. Cercate e parlate con gli esperti, se vi va. Io intanto provo. Mi organizzo. Cucino verdura, metto a germogliare legumi, imparo nomi di cereali che non sapevo esistessero.

Sono convinta? Sì, certo. E non per qualche strana fissazione ma per due questioni che mi sa che in certi ospedali diffcilmente sbandierano, e allora forse è utile che si inizi a buttarla qua in letteratura per poi parlare seriamente.

Prima questione: la meraviglia negli occhi della mia diabetologa. Dice che “certi valori” di solito si risistemano in un annetto, non in quattro mesi. Dice che comincia a interessarle molto questo mio mangiar solo verdura (dice così perché ognuno ha il medico che si merita, e la mia dottoressa è passata dal darmi del lei al prendermi allegramente in giro dopo circa 25 minuti. Benedetta sia, ma io non mangio solo la verdura, dai!).

Seconda questione: ho letto questo libro dal titolo francamente non accattivante (“Mangiare Sano e Naturale con Alimenti Vegetali e Integrali”). Me l’hanno regalato quando ormai ero esasperata dalle mille promesse di vivere a lungo senza insulina con tre settimane di triplo carpiato a base di cibi improponibili e attività fisica da culturista (che – marginalmente – io dovrei anche andare a lavorare, non rendermi disabile da sola passando il mio tempo a cucinare e andare in palestra…). L’ho aperto con la perplessità dovuta, e mi sono… divertita. Ho scoperto che c’è un modo leggero di affrontare una questione seria qual è quella del benessere e… Boh, sono andata da questo Michele Riefoli. Che mi ha dedicato due ore due. E questo forse è un altro dato da considerare, visto che le visite in cui mi riempiono di minacce di solito durano dieci minuti e chi mi visita non mi chiede nemmeno come sto.

Ecco. Per ora lo spot pubblicitario è finito. Ho disinstallato. Ho caricato il nuovo programma. Ora lo installo.

Vi farò sapere.

Contrassegnato da tag , , , ,

Domani sarebbero 78

Sarebbero stati, lo so.

Che delle celebrazioni non ci frega nulla, però me le fanno ricordare tutti sempre. Ok. Chi glielo dice a mia madre che nemmeno stavolta mi vedrà in chiesa? Che non mi ci vorrebbe niente, pensano forse altri, a farla contenta e accompagnarla. Che sarà mai? E’ che mi sale una bestemmia ogni volta, mi cova dentro una rabbia che mi fa del male. Allora non vado. Mi invento una scusa qualsiasi e non vado. Che poi, in verità, stavolta la scusa ce l’ho, che ho appuntamento dal dottore, uno nuovo, che a questo punto spero me lo dica lui pure, che la rabbia ha a che fare con la malattia, o la malattia con la rabbia, boh.

Cerco mio padre in tanti occhi. Lo trovo in un paio, che sono scuri e apparentemente non c’entrano. E che si sottraggono, puntualmente, come spesso hanno fatto quelli del titolare.

Domani sarebbero 78. 78 anni che mi pare così crudele non aver visto in terra, perché lui non era di quelli che si sarebbero rincoglioniti come certi vecchi. Perché ancora adesso i suoi appunti mi fanno compagnia (erano così recenti che è normale: i suoi appunti hanno meno tempo delle confezioni di pasta che ho in dispensa; hanno meno tempo della mia carta d’identità, che mi hanno consegnato l’ultimo giorno in cui lui era vivo, e ogni volta che la tiro fuori ci penso; hanno meno tempo di quasi tutte le mie scarpe, i suoi appunti, e così tutto si fa concreto e non passa nella scatola dei ricordi-punto-e-basta).

Sono arrabbiata. Il guaio è che non saprei dire con chi. Non con lui, che non è che abbia scelto di farsi scoppiare il cuore. Non con dio, perché arrabbiarsi con un amico immaginario, in my opinion, non mi cambierebbe un granché. Sono arrabbiata con me, forse, perché non riesco a farne a meno. Che si può fare a meno di un padre, c’è un sacco di gente fighissima che non ce l’ha mai avuto, un padre. Solo che io l’ho avuto e adesso lo rivoglio.

Che è vero che non è che ho perso tutto quello che. Ma io voglio che quel cazzo di libro che mi ha dato mia madre prima che partissi per l’India dicendomi “C’è il segno, è arrivato fin qua, vai avanti tu”, lo finisse lui, perché a me non frega nulla di quel libro, e vorrei solo vedere la cartolina spostata in avanti e i suoi occhiali sul tavolino del salotto. Cazzo.

E sono solo momenti che mi prendono così, lo so, perché certo l’avrei voluto qua fino a cento e passa anni, ma capisco anche bene che è normale che le persone, alcune persone, muoiano all’improvviso, una sera di inizio estate, quando tu stai già di merda per altre storie tue, e ti scombinino l’esistenza relativizzando tutto il resto e togliendoti il fiato ogni volta che ti fermi a considerare che se non sei stramazzata anche tu, quella volta lì, allora siamo davvero immensi, allora possiamo fare davvero a meno di qualsiasi cosa perché la vita ce l’abbiamo semplicemente dentro.

Deliro, lo so. E pretendo. Pretenderei. Voglio. Vorrei. Mi piacerebbe. Ok, non posso pretendere né volere. Posso esprimere un desiderio. E sto già mandando a quel paese ogni cosa, compresa me – soprattutto me – che mi aggrappo a speranze vane, perché so che il mio desiderio ha qualcosa di malsano. Mi piacerebbe. Sarebbe bello un abbraccio, in questa notte che domani sarebbero stati 78. Ma non un abbraccio qualsiasi, che so che ne avrò volendo a bizzeffe. Vorrei un abbraccio di quelli che ti sorprendono, di quelli che ti fanno capire che non sono stronzate i pensieri sull’esserci ancora della persona che più ti manca al mondo.

Mi tengo il mio delirio. Oggi la glicemia appena ho realizzato che giorno fosse è schizzata sopra il livello di guardia. Ormai ne sorrido. So quel che devo fare per tenerla sotto controllo. So che devo perseguire i desideri e imparare a trattenere l’amore. Non so come si fa, ma questo è un altro discorso, che le cose si possono imparare, piano piano.

Sarebbero stati 78. Rido pensando che si sarebbe dovuto inventare qualche stronzata delle sue, papà, perché era una di quelle cifre che a ribaltarle ti invecchiano di più, e allora come la mettiamo, eterno giovanotto che non ha mollato mai, fino a mollare tutto in un botto?

Rido, ecco, ora rido. Ho appena postato su facebook una canzone bellissima del mio amico Davide. E’ dedicata a un grande uomo. E a un padre. Ci sono dentro parole tonde che avrebbe detto anche il mio, di padre, magari in modo un po’ più rude. Ma “Ridere e Reagire” sarebbe stato un buon mantra, per lui, se solo avesse saputo che cos’è un mantra.

Basta. Tra meno di un’ora è mezzanotte. Augurerò buoni sogni a chi più di tutti me lo ricorda. Magari non servirà ad avere un abbraccio, ma a sentirsi amato sì, e il bene ritorna, questo lo so. Perché – tra l’altro – me l’ha insegnato mio padre.

Contrassegnato da tag , , , ,

“Sono ciò che aspetto”

1275432_694245707271006_1530074460_o

 

Ti trovi sempre più spesso ad avere a che fare con la pazienza. E ti scopri a fare e a dire cose che non ti saresti aspettata mai.

Aspettare. Curiosa parola, per me che vado sempre, che fin da piccola ero “zingara” e una miriade di altre espressioni dialettali tutte tese a dire che ferma non ci so stare, che viaggio per viaggiare, che non ci si aspetta che io aspetti.

Ora aspetto. E mi alleno ad imparare l’aspetto delle cose. Ad osservare, a gustare i dettagli, a piangere per le attese.

Che poi quando dico che piango le persone un po’ si impressionano, un po’ cercano di consolarmi perché forse credono che io voglia smettere. Ma piango perché le lacrime sono acqua, e l’acqua culla, arrotonda, sorregge, uccide, diluisce, gonfia, difende. Fatta d’acqua, di luce, di niente,… diceva una canzone.

Aspetto. Sorrido di me stessa e delle cose che mi stupiscono di me. A volte, lo confesso, dico delle bugie. Niente di grave. Cerco solo di rassicurare gli amici. E’ difficile dire “Sto aspettando da mesi, ma credo sia giusto”. E’ difficile non leggergli negli occhi che mi considerano pazza. Oppure leggerlo, ma infischiarsene una volta di più.

Aspetto e guardo l’aspetto. Che è il contrario del vivere di aspettative. Osservare le cose come se non avessero alcun senso, per guadagnare ogni istante un nuovo stupore.

E così scopri che una malattia può essere la salvezza, la possibiltà di incontro, l’occasione. E un sacco di parolacce come intercalare, per carità.

E scopri che ci sono persone disposte ad incontrarti via sms e dirti che si stanno innamorando.

Persone a portata di campanello che invece non incontrerai mai.

Persone che hanno aspettato una vita a confidare al compagno di banco di essere malate, e ancora oggi si nascondono nel bagno per farsi un’iniezione, ma poi a te raccontano che hanno paura di non riuscire più a fare l’amore perché i farmaci pian piano li stanno abituando ad avere qualcosa che li avvolge da fuori (dicono proprio così, davvero) piuttosto che una spinta interiore che li porta ad abbracciare o ad avere un’erezione. O entrambe le cose.

Il mondo, quando aspetta, è un mondo bello. Nell’acqua, però, non sulla spiaggia. Perché l’acqua culla, accoglie, uccide… L’acqua costringe a vivere e trovare il modo per respirare. Non ci si adagia nell’acqua, mai.

Penelope sapeva nuotare, io credo. Non avrebbe aspettato, sulla terraferma. Sarebbe scappata. Si sarebbe uccisa, semmai.

Penelope piuò aspettare perché lei è il viaggio, è Argo, è Ulisse, è Circe. Penelope aspetta perché non ha aspettative. Aspetta di stupirsi. Aspetta sé. E un po’ anche te.

 

PS: Questo post c’entra poco e nulla con le mie abituali storie ad indice glicemico controllato. O almeno così pare. E’ però che in questi giorni l’acqua, le attese, la fatica, un amore piccolo e timido che ha il coraggio di esistere solo perché qualche mese fa un picco glicemico mi stava ammazzando, si intrecciano con delle belle storie. E il caso non esiste. E io benedico la sua inesistenza. E una di queste belle storie è illustrata in un volume che deve nascere, che si chiama “Penelope: io sono ciò che aspetto”. Guardate e stupite: http://www.eppela.com/ita/projects/540/penelope-io-sono-ci-che-aspetto

 

Moreno (Gabriele), millanta anni fa.

Dieci anni fa. Caspita, quanto stavo male dieci anni fa. Cuore a pezzi, difficoltà di orientamento, senso di solitudine. Cose così. Guai da quasi trentenne con una cinquantina di chili di troppo che a ben guardare erano il peso metaforico di quel che non volevo togliermi di dosso. Partii per Sarajevo, così, di getto, per ripercorrere un pezzo di strada. Riguardo le foto di quei giorni in cui commemoravo con altri compagni la vita di Moreno. No, di Gabriele.

Gabriele Moreno. Ecco.

Perché Moreno è il nome per nascita, e Gabriele quello che si era scelto. E avendo aggiunto ora altri dieci anni di allenamento alla compersione, ho capito che non posso far altro che ricordarlo come Gabriele. Che allora lo chiamavo Moreno perché Gabriele ha a che vedere con la religione, e si sa che io la religione non. Però “io”, non. Gabriele il suo nome scelto lo amava. E lo faceva diventare carne e sangue, quel suo voto che l’aveva indotto a cambiarsi il nome.  

Non l’ho conosciuto, ma pochi mesi dopo la sua morte ne ho saputa la storia. E, a stretto giro, ho deciso in un certo senso di seguirlo. Di seguire quel movimento per cui la giustizia non può che affratellarsi alla pace e al rispetto, alla nonviolenza tutta attaccata, come voleva Capitini, perché ha da essere un concetto positivo e non l’opposizione all’errore della violenza.

Ma sto divagando. Sono off topic, come si userebbe dire. 

Stavo proprio male, dieci anni fa. Ho ripercorso la strada all’indietro, allora, e mi sono trovata a compiere scelte che avevano finalmente di nuovo a che fare con i significati, con i corpi, con la carne. La mia, di carne. Trascurata, bistrattata, usata come maschera e rifugio.

Sono stati belli, questi dieci anni. Al netto dei dolori. Oppure forse comprendendoli (nel senso che sono compresi nel pacchetto “vita bella”, pur senza essere stati capiti fino in fondo).

Dieci anni, ancora. Un’amica scrive un post che dice “In viaggio per Sarajevo” e io mi rendo conto di quanto tempo sia trascorso, di quanto peso sia riuscita a togliere, di quanto le foto di quei giorni ancora mi suggeriscano. Ne sono felice.

Però non posso che osservare che se dieci anni fa chiamava la carne, ora è il sangue a farsi notare. Certe volte circola un po’ come una melassa, per rubare un’espressione dell’amico Claudio. E crea qualche guaio. 

La differenza è che ora non ho bisogno di quei millequattrocento chilometri scomodi da percorrere, per ricordarmi che devo averci a che fare, con questo sangue zuccheroso, Scorre in me, è mio, e devo in primo luogo volergli bene, perché tutto sommato il suo mestiere lo fa dignitosamente, e prima di mandarmi in knock out mi avvisa. 

Poi penso anche a un’altra cosa, e mi viene da ridere, Penso che l’Orco Shrek aveva ragione: siamo fatti a strati, come le cipolle.

Da bambina avevo qualche problema con la pelle, primo strato.

Poi la carne, secondo strato.

Ora il sangue, terzo strato.

Vuoi vedere che al prossimo passaggio mi riesce di arrivare a occuparmi del mio cuore?

Come si dice sui social network, “stay tuned” 🙂

 

NB: La storia di Gabriele Moreno Locatelli è reperibile un po’ ovunque, ma siccome son state scritte e dette anche un mare di sciocchezze, io consiglio di far riferimento a quel che si trova su http://www.beati.org, alle testimonianze di chi c’era e – anche se pare poco elegante autocitarsi – al racconto contenuto in “Clown, bombe e Girasoli”, ed La Meridiana 2001, di F.Ongaro e L.Dell’Acqua.

 

Contrassegnato da tag , , ,

Io siamo Uno.

Avena Selvatica, è la mia pianta. Quelli così, si vestono un po’ strani. Quelli così, raramente scelgono una strada sola. Non sono indecisi, ma si complicano la vita e le percorrono tutte.

Quelli così, se hanno una malattia, potrebbero averne anche una qualunque, però ce l’hanno in una forma tutta particolare, che è solamente la loro. E ci tengono pure, dico io, a sei o sette mesi dalla scoperta della mia banale strana patologia.

Quelli così, vanno veloci. 

Quelli così, raramente si attaccano a cose e persone. Però le amano intensamente, e che cazzo. E se si appassionano, si appassionano davvero e tirano fuori artigli e tutto il resto. 

Quelli così siamo io. E siamo Uno. 

Quelli così, quando gli si dice che la società è fondata sulla famiglia tradizionale, si incazzano come cinghiali tranquilli. 

Quelli così, non diranno mai “quelli così”, perché siamo Uno. Crediamo in Uno. Maiuscolo mica perché divino, ma perché è la cosa importante, il nome proprio che dà senso all’essere in tanti. Se ci fossero gli dei, sarebbero tutti Uno. Lo sono.

Oggi è il giorno in cui mi arrabbio perché faccio battute con qualche amico omosessuale, a seguito dell’ennesima stronzata sparata dall’ennesimo imprenditore omofobo (O solo idiota? O solo un po’ stronzo?) che voleva fare il brillante, e mi trovo una pletora di conoscenti che nemmeno tanto velatamente mi chiedono perché io me la prenda tanto, perché mi metta sempre a combattere anche battaglie non mie.

A parte il fatto che non ho combattuto proprio nulla,almeno per ora: un post su facebook non è combattere, ma semplicemente condividere uno stato d’animo mentre sto in ufficio a fare altro. Combattere è altro, e si fa altrove. E spero si riprenda a farlo insieme perché io mi sono un po’ rotta di andare ai presidi e sentire freddo perché non si riesce nemmeno più a stare spalla a spalla. 

E poi proprio non ho capito perché NON dovrei prendermela. 

Perché sono eterosessuale? Perché sono bianca? Perché sono europea? Perché ho un livello d’istruzione medioalto? Perché – non in assoluto, ma data la congiuntura economica attuale – sono decisamente benestante?

Oppure perché sono tutte queste cose insieme ed è bene che mi faccia gli affari miei e continui a produrre reddito, occupandomi della mia salute “che le tue belle battaglie da combattere ce le hai già anche tu”? 

Non diciamo cazzate. Non. Diciamo. Cazzate.

Io sono una malata di quelle che ancora nemmeno dimessa dall’ospedale di merda dove l’avevano portata, si è potuta permettere l’assistenza privata. Sono una che va dalla naturopata, dall’alimentarista vegano e dal massaggiatore ayurvedico. Sono una che ha gli strumenti dialettici per sfanculare la farmacista che la tratta male. Volendo anche in più lingue, il che mi permette di andarmene serenamente in vacanza all’estero con malattia e tutto. 

C’è gente messa peggio di me che le cose qua sopra non se le può permettere. Che va dalla dottoressa a chiedere se “per favore” può fare solo i controlli che passa la ASL perché cento e passa euri ogni volta che si fan gli esami del sangue sono tanti.. 

Ecco. 

Cosa c’entra con l’omofobia che mi ha fatta incazzare oggi? E con la storia del modulo della scuola  con scritto “padre” e “madre” senza nemmeno la dicitura “chi ne fa le veci”? E con l’antirazzismo? E con l’antifascismo?

C’entra. E anche centra. Eccome. Perché io sono una che pensa che siamo Uno. Che siamo individui con il sacrosanto diritto alla felicità. Anche se abbiamo avuto una sfiga. Anzi, soprattutto se abbiamo avuto una sfiga. 

E che siamo Uno che può essere del colore, dell’orientamento politico, sessuale, filosofico che gli pare, e non per un fatto di tolleranza, che della tolleranza non me ne frega nulla. Anzi, che io sia parecchio intollerante, lo sanno tutti. A me interessa la varietà. Mi interessano tutte quelle strade, cui io non rinuncio, e mi interessa che non siano vuote.

Perché hanno detto “lobby omosessuale”, di quelli che obiettavano che quel modulo della scuola per i bambini senza mamma, o con due mamme o con un tutore o… non va bene. Lobby omosessuale? Ma avete preso un fungo allucinogeno? Si trovano ancora, in giro? Fatemi sapere dove, vi prego.

Che poi le persone, per difesa o per ottusità (ché anche i neri, gli omosessuali, i poliamorosi possono essere ottusi, mica dico che siamo sempre tutti dei geni lungimiranti) diventano lobby sul serio, e io sulle mie mille strade percorse tutte insieme non trovo altro che gruppetti sulla difensiva, che si fanno reciprocamente a pezzi. E io sono stanca, che già cammino tanto, che già sono malata, che già vivo da sola, che già devo sempre dare un sacco di spiegazioni….

Sì, perché io sono bianca, sono eterosessuale, sono benestante, sono europea, sono laureata e so più di due lingue (compreso il dialetto, per giunta Lombardo). Però vivo da sola. Però non ho figli (Perché non hai figli?! Perché poi magari me ne viene su uno con la tua delicatezza, e io lo abbandono all’Autogrill, mi viene da risponderti). Però non ho un fidanzato ufficiale. Però vedi bene che da casa mia esce spesso gente che non si capisce che cosa ci fa.

Un motivo per discriminare, si sa, lo si trova sempre. Ah, dimenticavo: se per caso stessi male, spero che riuscirete a venire a trovarmi, perché non ho conviventi di nessun genere. Al limite, provate con la storia che siete miei cugini. O nipoti di un premier, per dire. In un posto dove si discrimina con questa facilità, una posizione di prestigio in saccoccia, conviene averla sempre.

 

Immagine